“Dove stiamo andando, mamma?” chiese il bambino con la maglietta rossa e i capelli a caschetto lisci, che lo facevano sembrare un funghetto pronto per essere colto.
Esaminava con stupore le sue piccole mani tenendo aperti i palmi, come se le avesse appena scoperte parte del corpicino. Un improvviso singhiozzo lo assalì facendolo sobbalzare sul grembo della madre.
“Ho paura mammina!” gemeva sottovoce la bambina dai lineamenti delicati come un angioletto. Abbracciava la madre dal volto stanco ed affranto, indossava un vestitino blu malconcio e portava con sé un orsacchiotto di peluche, suo compagno di viaggio inseparabile.
Le due mamme presenti, sedute in silenzio una di fronte all’altra, si guardarono d’istinto dritto negli occhi. I loro sguardi in mezzo al buio si unirono in potentissimi lampi di vita, luce, speranza.
Dalle loro bocche socchiuse ed assetate non usciva alcuna parola, né un fiato, solo carezze delicate come seta sui visi innocenti dei bambini. Passavano le dita, come pettini, tra i capelli delle loro creature inermi, poi baci umidi sulle labbra che tremavano di freddo, e ancora baci.
Accanto a loro sedeva un ragazzo con le mani poggiate sulle cosce e i palmi rivolti verso l’alto, in riverente silenzio. Aveva gli occhi chiusi e pregava nella testa come se si trovasse da solo in un altro posto dell’universo, lontano da quell’oscurità che avvolgeva ogni cosa. Muoveva appena le labbra in sussurri impercettibili, sottili come le lenze dei pescatori che si disperdono nel mare. Lentamente si lasciava cadere all’indietro con la schiena e con il capo, trasportato via da quell’estasi religiosa.
Vi erano poi due uomini, vecchi e deboli, di cui si scorgevano i lineamenti dei visi magri e scavati dalla fame, mettendone in risalto maggiormente gli zigomi spigolosi. Se ne stavano uno accanto all’altro, quasi sorreggendosi a vicenda con i gomiti che si sfioravano. Avrebbero voluto stringersi in un abbraccio fraterno per unire le poche forze rimastegli nelle ossa, affievolire il peso delle tremende angosce che portavano sulle spalle.
Quella notte il mare era stato clemente con le sette anime a bordo, concedendogli una piacevole bonaccia e onde leggere che s’infrangevano dolcemente contro lo scafo arrugginito della barca, che avanzava come un puntino per la distesa infinita.
Avevano navigato per estenuanti miglia, a lento moto, quando improvvisamente la cabina in cui erano ammassati fu rapidamente invasa da un penetrante odore di bruciato. Qualcosa andava a fuoco. Le pupille iniziarono a lacrimare, la mente ad annebbiarsi. Poi, si avvertì un tonfo, come un macigno che cade. Senza alcun preavviso il motore finì di emettere il confortevole suono che fino a quel momento li aveva accompagnati. Qualcuno sul piano di coperta, sopra le loro teste, si muoveva a passo veloce. Si sentiva distintamente la voce di un uomo sbraitare, sembrava impartisse ordini a qualcun altro lì presente. Piombò di nuovo il silenzio. Adesso si udiva solo il lieve dondolio del mare e i respiri di quelle povere anime. Il bambino con la maglietta rossa cominciò a piangere disperatamente.
“Va tutto bene cucciolo della mamma” la donna lo strinse al seno per rassicurarlo.
Si udì il rombo di uno scafo veloce, probabilmente un gommone, avvicinarsi alla barca. Gli uomini che fino a quel momento erano stati al comando della traversata se la svignarono come vigliacchi, tratti in salvo dai loro complici.
“Siamo rimasti soli” disse il ragazzo, fino a quel momento aveva continuato a pregare incessantemente. Tutti i presenti si voltarono verso di lui, si sentiva gli occhi addosso che lo osservavano come lucciole in un campo buio. Si alzò in piedi stando attento a non battere la testa al soffitto basso e si avvicinò alla scaletta a pioli che portava sul piano di coperta, direttamente nella plancia di comando.
Il portellone dai meccanismi arrugginiti era aperto, gli bastò sollevarlo compiendo un piccolo sforzo per sbucare con la testa all’aperto ed essere investito da una folata di brezza marina mischiata al denso fumo. Tossì e si coprì la bocca e il naso con il gomito, l’incendio a bordo avanzava inesorabile.
Si arrampicò aggrappandosi con una mano al timone. L’area di comando era poco spaziosa, vi entravano a malapena due persone, circondata da vetri per permettere all’equipaggio una visuale completa durante la navigazione e nelle manovre di ormeggio.
La porticina di legno, malridotta e sbiadita dalla salsedine, conduceva a poppa. Era stata lasciata spalancata durante la fuga degli scafisti. Il ragazzo si ritrovò fuori dalla cabina. Stando attento a non battere i piedi nudi contro il verricello, scavalcò una cima poggiata alla rinfusa sul piano di calpestio che iniziava a scottare.
Aboubakar, il nome del ragazzo dall’animo coraggioso, analizzò velocemente la situazione. La barca doveva essere abbandonata al più presto da tutti gli occupanti, altrimenti sarebbe diventata la loro tomba. Ritornò alla botola che conduceva nella cabina sottocoperta, ove l’aria era diventata irrespirabile.
“Dovete uscire, subito!” urlò. I bambini cominciarono a piangere sentendo i toni così forti.
I due anziani rimasero impalati, forse per la paura, forse per il freddo dopo un’intera notte insonne che gli aveva inevitabilmente paralizzato i muscoli già malridotti.
“Vi prego dobbiamo fare in fretta!” aggiunse Aboubakar tendendo loro la mano. Il vecchio più vicino, che per questione di spazi doveva essere il primo ad uscire, afferrò l’appiglio di speranza e si alzò di scatto per risalire, lo stesso fece subito dopo l’altro. Seguirono la donna e il bambino con la maglietta rossa che se ne stava appoggiato con la testolina sul cuore della mamma.
“Come ti chiami?” domandò Aboubakar alla bambina per rincuorarla, non aveva smesso di alternare pianto e singhiozzo fino a quel momento. Lei rimase in silenzio, poi mostrò ad Aboubakar l’orsacchiotto con l’occhietto penzolante e un braccio scucito.
“Jamila!” rispose con gli occhi umidi.
“Adesso andiamo a vedere i delfini, sei contenta?” lei rispose accarezzando il suo amichetto morbido sulla pancia e facendo cenno di sì con la testa. La mamma di Jamila passò accanto ad Aboubakar, le loro vite erano nelle mani di quel ragazzo che si era addossato la responsabilità di trarli in salvo, senza possibilità di scelta. Nessuno di loro, in realtà, ne aveva avuto modo di farlo sin da quando era nato in terre povere, aride, devastate dalla guerra e dalla carestia, in luoghi dimenticati in cui non vi era alcuna opportunità di crescita.
Aboubakar ritornò a poppa della barca, intorno a lui regnava la distesa immensa del mare, come un deserto infinito. All’orizzonte si scorgeva il sole che imperiosamente stava nascendo.
Sul lato dritto, legato in malo modo ad un corrimano, vi era un salvagente anulare. Lo sfilò velocemente donandolo alla mamma di Jamila. Lei lo afferrò, nei suoi occhi si leggevano al contempo gratitudine e disperazione. Aboubakar pregò che quello strumento di salvataggio dall’aspetto malridotto non avesse alcuna foratura e che mantenesse i naufraghi a galla una volta in acqua.
Si recò a prua con lunghi balzi, ove un altro salvagente giaceva vicino ad una gaffa dalla punta scheggiata. Fu consegnato all’altra donna, il cui bambino con la maglietta rossa sembrava essersi addormentato. Infondo, i sogni di ogni creatura di questo mondo sono sempre al sicuro tra le braccia di una mamma che li protegge.
Restavano in tre adesso, senza un appoggio sicuro. La barca cominciava ad affondare rovinosamente. L’acqua salata aveva già invaso la sala macchine e la prua s’innalzava verso il cielo sempre più terso. Una macchia oleosa si dilagava velocemente sulla superficie.
“Quando non ci sarà più tempo, dovremo tuffarci” disse rivolto a tutti.
Aboubakar aveva solo sedici anni e stava fuggendo dalla sua terra natia perché aveva un sogno. Voleva essere un ragazzo come tutti gli altri. Poter studiare sui banchi di scuola con le scarpe indossate e una maglietta pulita. Laurearsi, trovare un lavoro dignitoso, mangiare seduto a tavola con la sua famiglia, andare al cinema, starsene sul divano pensando che la vita era un dono meraviglioso, che non vale affatto la pena sprecare.
Da bambino giocava con gli amici ai piedi del lago, sulle cui sponde sorgeva il suo villaggio. Spesso accadeva che, dopo tiro maldestro, si dovesse tuffare per recuperare il pallone finito in acqua. Aboubakar non si tirava mai indietro, era l’unico del villaggio a saper nuotare ed aveva imparato da solo. Ricordava benissimo la prima volta che si era lanciato dove non si toccava, nessuno osava farlo. Voleva riprendersi il pallone bianco di cuoio regalatogli per il compleanno dal nonno, che se n’era andato anni prima. Aboubakar aveva capito che con la forza di volontà si poteva arrivare lontano, anche nelle acque più profonde del lago. Così, quel pomeriggio, mentre il pallone bianco di cuoio s’allontanava sempre di più dalla riva, iniziò a nuotare. Da allora non aveva più smesso di farlo. Qualcuno era corso ad allertare i grandi, “Aboubakar si è tuffato nel lago, sta andando dove non si tocca!”. Quando ormai le persone sulla terraferma erano diventati puntini in lontananza, finalmente raggiunse l’obiettivo allungandosi con la punta delle dita. L’acqua gli entrava nella bocca spalancata per lo sforzo. Aboubakar vi si aggrappò come se quella sfera rappresentasse l’essenza della vita stessa. Ritornò sano e salvo battendo le gambe a stile libero, tra le grida di gioia degli amici, e quelle di rabbia dei genitori. Nonostante l’assoluto divieto imposto dai grandi di ritornare a giocare vicino al lago, Aboubakar vi si recava ogni giorno per una nuotata, mantenendosi vicino alla riva. Quei gesti ormai gli erano entrati nell’anima. Dopo mesi di pratica, era in grado persino di cimentarsi in uno stile libero rudimentale, ma efficace, nonostante non avesse la fortuna di avere alcun maestro a dargli consigli e correggerlo nella tecnica. Gli veniva tutto naturale, un istinto
che fino a quel momento era rimasto dormiente nelle viscere e si era risvegliato a contatto con l’acqua. La sua nuotata grezza gli permetteva di percorrere centinaia di metri, a volte anche più di un chilometro. I suoi amici lo seguivano dalla terraferma, contavano quante bracciate macinava, quanto era stato veloce ad arrivare fino al tronco spezzato che giaceva sulla battigia. Fu soprannominato “Il ragazzo che sapeva nuotare”.
“Aiuto, aiutatemi vi prego!” i pensieri di Aboubakar furono distolti da quella voce spaventata. Uno dei due uomini era caduto in mare. Ormai, solo la prua della barca affiorava in superficie, l’ultima speranza sotto i loro piedi nudi.
“Non c’è più tempo, dobbiamo tuffarci tutti” fu il primo a compiere il gesto. Seguirono la mamma con Jamila, poi l’altra donna e il bambino con la maglietta rossa, che fu svegliato di soprassalto dall’impatto. Aboubakar riemerse a pochi metri dall’uomo caduto in acqua, gli bastarono poche bracciate vigorose per raggiungerlo. Questi, disperato, non era più in grado di tenersi a galla e arrancava pericolosamente.
“Adesso devi rimanere calmo, ci sono qui…” ma non riuscì a terminare la frase che l’uomo, raccolte le ultime energie, si scagliò sulla testa di Aboubakar spinto dall’istinto di sopravvivenza. Iniziò una brutale lotta a corpo libero. Sotto di loro c’era l’abisso, ma il ragazzo era abituato a vedere tutto buio, poiché anche le acque del lago in cui nuotava non erano affatto cristalline.
L’uomo sopra la sua testa adesso, continuava a scalciare in preda al panico, così Aboubakar si allontanò nuotando sott’acqua per affiorare alle spalle del naufrago. Fu costretto a colpirlo violentemente con un pugno per placarlo. Il gesto fu crudo e barbaro, ma funzionò efficacemente. Il salvagente più vicino a loro era quello di Jamila e della mamma, così affidò loro il vecchio privo di sensi.
“Non so nuotare, ti prego aiutami” gridò l’altro sbracciando. Aboubakar immerse la testa ed attaccò con la sua nuotata a stile libero fino a raggiungerlo in pochi secondi. La barca era sprofondata per sempre.
“Scegli. Rimani fermo e ti salvo, oppure, non mi avvicinerò di un altro centimetro e ti lascio ingoiare dal mare” disse con voce di ghiaccio. In realtà non credeva ad una sola parola di ciò che aveva appena enunciato. Il vecchio scelse la vita e sfinito, si lasciò afferrare come se fosse stato l’orsacchiotto di peluche di Jamila, ormai completamente zuppo, facendosi trasportare fino al salvagente a cui erano aggrappati la donna e il bambino con la maglietta rossa.
Aboubakar era rimasto l’unico a dover far affidamento solo sulle proprie forze e sulle capacità natatorie. I salvagenti non avrebbero retto ulteriore peso, ma per fortuna rimanevano ancora a galla. Creava dei piccoli cerchi con le gambe piegando leggermente le ginocchia di lato, come aveva imparato a fare nel torbido lago, per stare lontano dal fondale melmoso e viscido.
Il sole illuminava le teste dei naufraghi adesso, i cui lineamenti erano già ben visibili in lontananza.
Il sale bruciava la pelle e graffiava gli occhi, mentre la paura dell’ignoto li divorava.
Trascorsero infinite ore, sembravano giorni, soprattutto per Aboubakar le cui energie lo stavano abbandonando ormai. Un crampo lo assalì al polpaccio destro come un morso
famelico di uno squalo. Aboubakar, il ragazzo che sapeva nuotare, chiuse gli occhi e si lasciò andare nel buio profondo. Udiva il pianto disperato di Jamila sempre più lontano. Poi venne il silenzio.
“Svegliati!” una vocina dolce di bambina gli solleticava l’orecchio.
“Il mio orsacchiotto vuole giocare con te” era Jamila, che impaziente attendeva il risveglio del suo salvatore. La mamma sorrideva, sorrideva e piangeva, si portava le mani alla bocca, incredula. Incredula per un altro giorno di vita che era stato concesso loro grazie a quel ragazzo, incredula per poter vedere la sua bambina che giocava felice e non esisteva cosa più bella al mondo. Piangeva, quella mamma piangeva di gioia. Il bambino con la maglietta rossa se ne stava tranquillo sulle gambe della mamma, succhiandosi il pollice.
“Grazie per averci salvato la vita” disse l’uomo con un evidente bernoccolo sulla fronte. Questi si inginocchiò accanto al ragazzo disteso su una branda, abbassando la testa in segno di gratitudine.
Aboubakar avvertiva dolori lancinanti ovunque, il suo corpo era stato messo a durissima prova, non aveva mai avvertito una sensazione così debilitante.
“Perdonami se ti ho colpito” si scusò.
“Questa vita mi ha colpito molto più forte” il vecchio si allontanò.
“Dove siamo?” domandò Aboubakar nel tentativo di appoggiarsi sui gomiti, ma i suoi muscoli erano ancora troppo deboli e precipitò all’indietro sul giaciglio.
Un uomo vestito completamente di bianco gli si presentò davanti per rispondere alla sua domanda, “Stiamo andando in un porto sicuro”.
La nave che li aveva intercettati per caso lungo la rotta di navigazione, li conduceva verso la salvezza. Aboubakar chiuse di nuovo gli occhi e cadde in un sonno profondo con il sorriso sulle labbra. Sognava di nuotare nel lago, mentre tutto il villaggio lo seguiva dalla riva incitandolo a proseguire oltre il tronco spezzato. Scorse due persone tra la folla in festa, erano i suoi genitori. Lo salutavano augurandogli buona fortuna.
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Profilo Autore
- Mi chiamo Stefano Ciollaro, sono nato nel 1990 e la mia vita, da sempre, gravita intorno ad un unico elemento, l’acqua: quella salata dei nostri splendidi mari, quella dolce dei laghi, quella che profuma di cloro delle piscine. A tutto ciò si lega indissolubilmente il magnifico mondo del nuoto, che per me rappresenta gioia, armonia, equilibrio.
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