George Anderson osservava attentamente attraverso i vetri degli occhialini la piscina che si estendeva come un deserto d’acqua. Sfiorò delicatamente con il polpastrello dell’indice la lente che gli comprimeva l’orbita e su quel minuscolo schermo, proprio davanti alla pupilla, apparve un numerino che indicava la temperatura della vasca, 27 gradi e mezzo.
“Perfetta!”, esclamò nella mente il giovane nuotatore, inspirò a fondo con le narici, per poi far rilassare il diaframma espirando dalla bocca lentamente.
Fece un doppio click sempre nello stesso punto, così comparve il viso del papà, Adam, allenatore ed ex atleta olimpico plurimedagliato, che gli parlava con tono di voce pacato. Aveva i capelli un po’ brizzolati, gli ripeteva ancora una volta come affrontare la vasca del ritorno, in quella gara che avrebbe segnato inevitabilmente la storia del nuoto e dell’umanità intera.
George Anderson si voltò di scatto verso Maverick, l’atleta dal fisico statuario e con le braccia completamente tatuate che avrebbe gareggiato nella corsia al suo fianco. Portava stampata la bandiera degli Stati Uniti sulla cuffia nera in carbonio, un modello così leggero che al nuotatore sembrava non avere nulla indossato sulla testa, e che faceva guadagnare preziosi centesimi di secondo ad ogni allungo.
Maverick si voltò a sua volta e sorrise mostrando i denti bianchissimi a George Anderson, poi gli fece un cenno con la mano sulla fronte come il saluto militare, “Good luck, my friend” gli disse.
Anche il padre di Maverick era stato una leggenda del nuoto, Michael Phelps. Questi se ne stava seduto sugli spalti ad assistere all’evento in solenne silenzio, come se a scendere in vasca in quel momento dovesse essere lui stesso.
George Anderson e Maverick si erano preparati per quell’evento insieme durante il corso della stagione ed erano diventati inseparabili amici, allenamento dopo allenamento, fatica dopo fatica. Erano considerati gli atleti più forti al mondo nella distanza dei 100 metri stile libero ed i riscontri cronometrici lo testimoniavano senza lasciar alcun dubbio, tanto che il muro dei 46” era ormai pronto per essere abbattuto.
C’era ancora un ultimo atleta però, pronto a sfidarli e batterli entrambi.
Costui se ne stava immobile di fronte al blocco di partenza che gli era stato assegnato senza proferir alcuna parola. Non aveva bisogno di riscaldarsi facendo roteare le spalle e il collo, le sue potenti articolazioni erano già ben lubrificate. Non indossava gli occhialini, non ne aveva affatto bisogno, le sue pupille nere non lasciavano permeare una sola goccia d’acqua e luccicavano sotto i riflettori dello stadio del nuoto. Aveva uno strato di pelle simile alle squame di un pesce, che lasciava scorrere l’acqua senza alcun attrito. I suoi piedi palmati erano in grado di generare una propulsione incredibile lasciando dietro di sé la scia di un motoscafo.
Il nome di questo temibile atleta era Carbon 45 Sec, il nuovo robot nuotatore creato per battere l’essere umano nei 100 metri stile libero.
“45” non era numero assegnato a caso, l’industria all’avanguardia che lo aveva progettato e creato dopo anni di studi e ricerche aveva prefissato un unico scopo, infrangere il muro dei 46” che perdurava da decenni ormai, ma soprattutto toccare la piastra di arrivo prima di qualsiasi altro nuotatore umano al mondo.
Il brusio di sottofondo generato dal pubblico accorso numeroso per assistere all’evento fu spezzato improvvisamente dal giudice di gara che si era avvicinato al bordo vasca, persino lui sembrava teso, come tutto il resto del mondo. Fece cenno con il braccio tremante che tutto era finalmente pronto. Il fatidico momento che avrebbe segnato le sorti di questo sport era giunto, non si poteva più tornare indietro, tutto dipendeva da quei due ragazzi poco più che ventenni.
Soffiò più volte col fischietto e i tre nuotatori, due in carne ed ossa uno in circuiti e leghe leggerissime, si avvicinarono al blocco di partenza facendo un passo in avanti.
George Anderson diede un’ultima sistemata agli occhialini che adesso riportavano sullo schermo la sua frequenza cardiaca in netta accelerazione, l’adrenalina cominciava a fare il suo dovere. Fischio lungo, gli sfidanti s’innalzarono come statue sui blocchi.
Maverick imitò le movenze del padre, tipiche di ogni sua partenza: portò le braccia distese dietro la schiena caricandole come fossero state delle molle, poi ne sprigionò la potenza liberandole in quel movimento rimasto impresso nella storia del nuoto, che faceva tremare ogni avversario.
Il robot era rimasto praticamente fermo tutto quel tempo, impassibile, i suoi circuiti erano privi di qualsivoglia emozione, bensì pullulavano di fluidi artificiali ed oleosi.
“Take your marks!” fu l’ordine successivo che risuonò nell’aria come un fulmine al ciel sereno, così si aggrapparono decisi con le mani ai margini del blocco assumendo la classica posizione della track start, il robot quasi lo sradicò dal pavimento tanto era violenta la sua forza.
George Anderson guardava la superficie dell’acqua, la sua immagine riflessa rimaneva immobile come una roccia, una goccia di sudore gli attraversò in un attimo il viso e cadde nel vuoto.
Un suono tagliente diede il via alla gara infrangendo così il silenzio in cui era piombato il pubblico sugli spalti, immediatamente avvolto dal delirio adesso, mentre i tre atleti avevano appena terminato la prima potente fase subacquea ed erano sbucati come squali inferociti che afferrano la loro preda in superficie.
C’erano tantissimi piccoli tifosi che sfoggiavano cartelloni colorati con le scritte incitando i loro eroi in carne ed ossa, George Anderson e Maverick, urlando a squarciagola, mentre il vecchio Michael continuava a rimanere seduto aggrappato al suo posto d’onore in prima fila, in silenzio. Con i suoi occhi scuri osservava attenti ogni singolo movimento del figlio, le labbra serrate si piegavano rabbiosamente verso il basso.
Anni di duro allenamento e preparazione, sacrificio, dedizione, cura di ogni minimo dettaglio, fatica, dolore, ripetizioni su ripetizioni, tutto questo sarebbe stato vano se quel robot li avesse battuti.
In un angolino in disparte della struttura c’erano degli uomini in abito grigio attillatissimo, tutti uguali, indossavano occhiali da sole dalle lenti nere, capelli completamente impomatati fino all’ultima ciocca. Era la dirigenza al completo dell’industria che aveva sguinzagliato quel robot potentissimo in acqua. Il loro capo era un tale seduto con le gambe incrociate nel bel mezzo di quel folto gruppo. Questi aveva investito ingenti somme di danaro per realizzare il progetto Carbon 45 Sec, un vero trionfo dell’ingegneria, finanziato da sponsor e potenti del mondo.
Ai 50 metri il robot fece fermare il tempo a 21”64, un passaggio spaventoso, tutto secondo i piani dei dirigenti che se la ridevano e bofonchiavano mascherandosi le labbra con le mani. La virata della macchina era stata così violenta che la piastra del cronometro si era staccata dai perni che la sostenevano.
George Anderson uscì dopo sette colpi di gambe a delfino dalla seconda e ultima fase subacquea della gara e ripensò alle parole del papà, che gli risuonavano ancora nella mente, così cominciò la sua inarrestabile progressione nella vasca di ritorno.
Maverick, dal canto suo, aveva appena attaccato con la prima bracciata dopo la virata, sembrava di rivedere il padre da giovane in acqua in quelle bellissime ed interminabili fasi subacquee, ma questa è tutta un’altra storia, e purtroppo rimaneva dietro di mezzo busto dal temibile avversario che conduceva saldamente al comando, dettando il ritmo in un’incessante propulsione di gambe simile alla scia di uno scafo.
Carbon 45 Sec non ruotava nemmeno la testa per prendere aria, i suoi polmoni meccanici simili a delle sacche non avevano bisogno di ossigeno.
Mancavano ormai gli ultimi metri, il destino del mondo del nuoto era ormai segnato, le speranze di farcela cominciavano lentamente a svanire.
Uno dei membri della dirigenza in giacca e cravatta mostrò al collega al suo fianco il monitor di un tablet, questi lo afferrò con voracità e analizzò velocemente i dati che comparivano all’impazzata uno dopo l’altro, numeri indecifrabili e formule, poi si sfilò gli occhiali con fare nervoso.
Il monitor fu esaminato da tutti i presenti, passato di mano in mano fino a giungere sotto gli occhi del capo, questi si alzò in piedi facendosi perno sul luccicante bastone di legno con un appariscente teschio argentato da pomello. Il suo corpo gracile scricchiolò distaccandosi dalla poltrona in pelle posizionata sul bordo vasca appositamente per lui, mentre quell’aria di superbia che lo aveva contraddistinto fino a quel momento sembrava stesse lasciando il posto ad una smorfia di preoccupazione.
“Cosa stanno a significare tutti questi numeri, spiegati in fretta!” sbraitò all’uomo più vicino, il suo braccio destro.
Questi, palesemente impreparato a rispondere alla domanda, dapprima ne evitò lo sguardo per non finire fulminato all’istante, cercando invano riparo tra i colleghi, da cui però non ottenne alcuna risposta se non il silenzio, poi trovò il coraggio di affrontare il suo terribile interlocutore.
“Ehm, non possiamo ancora fornire… una spiegazione… precisa, signore, forse si tratta di un guasto… ehm, all’impianto di alimentazione elettrica, signore” disse balbettando.
Sulla fronte corrugata dell’anziano capo si formarono all’istante minuscole macchioline di sudore, non trovava le parole per esprimere la rabbia che risaliva dalle sue viscere, così scaraventò con violenza il tablet al suolo, lo schermò smise di mostrare i numeri e dati.
Il ritmo di nuotata del robot, improvvisamente, iniziò a rallentare quando mancavano solo pochissimi metri alla fine della gara, mentre George Anderson e Maverick guadagnavano sempre più centimetri, che li avvicinava all’arrivo come due uragani.
Carbon 45 Sec aveva perso tutto il margine guadagnato sui suoi avversarsi, il possente braccio destro rimase bloccato durante la fase di recupero con il gomito in alto, senza poter continuare il gesto quando gli rimaneva solamente l’allungo finale per vincere.
Un copioso trafilamento d’olio fuoriusciva da un piccolo foro ubicato sul capo del robot, e si propagava velocemente sulla superficie dell’acqua.
Le gambe dell’essere meccanico iniziarono ad affondare rapidamente come la poppa di una nave con lo scafo squarciato, trascinandosi tutto il resto del corpo, ormai spento e privo di ogni impulso elettrico.
George Anderson e Maverick, superata ormai la macchina morente, toccarono insieme la piastra d’arrivo facendo fermare il cronometro a 45”96, nuovo record del mondo dei 100 metri stile libero.
Il pubblico ora poteva finalmente esultare, esplose così in un frastuono assordante, sembravano tutti impazziti, persino Michael aveva rotto il silenzio e adesso una lacrima gli solcava il viso.
George Anderson continuava a guardare incredulo il tabellone che proiettava fuochi d’artificio colorati con al centro due lettere a caratteri cubitali, W.R.
Maverick, invece, si era messo seduto sulla corsia come un re appena incoronato sul suo trono ed esultava prima con le braccia rivolte al cielo, mostrando il petto e quei disegni indelebili sulla sua pelle, poi battendo forte i pugni sull’acqua per esternare tutta la sua gioia.
Finalmente i due atleti vincitori poterono abbracciarsi, l’impresa era stata portata a termine con successo, la macchina era stata battuta dall’uomo, mentre tutto la staff dirigenziale di Carbon 45 Sec avevano già abbandonato la postazione, e si sentiva solo la voce del loro capo furioso “Siete tutti licenziati, incapaci! Questo fallimento mi costerà milioni!”. Il corpo esanime del robot giaceva sul fondale, abbandonato. Gli occhi si spensero come due lampioni all’apparire delle luci dell’alba. Il nuoto aveva vinto, lo sport aveva vinto, l’uomo aveva trionfato sulla macchina.
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Profilo Autore
- Mi chiamo Stefano Ciollaro, sono nato nel 1990 e la mia vita, da sempre, gravita intorno ad un unico elemento, l’acqua: quella salata dei nostri splendidi mari, quella dolce dei laghi, quella che profuma di cloro delle piscine. A tutto ciò si lega indissolubilmente il magnifico mondo del nuoto, che per me rappresenta gioia, armonia, equilibrio.
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