La stagione master in vasca si è conclusa e io mi sto dedicando allo scarico totale. Ci pensa l’accadde oggi a rinfrescarmi la memoria, come uno spruzzo di acqua fresca sulla pelle arroventata dal sole dell’ozio, mi ricorda che nuotare è bello e che ogni tanto arrivano anche grandi soddisfazioni. Scrivevo così alcuni anni fa in occasione della gara conclusiva della stagione di esordio da M40, i 50 stile libero.
In camera di chiamata, tensione condivisa con le altre atlete. Incerta se sia meglio stare seduta, con il rischio del calo di pressione quando mi alzo, o in piedi, ma mi si affaticano le gambe. Ognuna la vive a modo suo: R. si raccoglie su se stessa; M., trasferita a Roma, mi chiede delle vecchie compagne di squadra e in particolare di B. F. se ne sta seduta in silenzio e mi chiede di aiutarla a infilare la cuffia; S. mi racconta che le scarpe della sera prima le hanno fatto uscire le vesciche. D. invece mi confessa che le ho fatto crescere l’ansia.
Sto già con la cuffia in testa, pronta ad infilare gli occhialini attraverso cui vedo poco, hanno le lenti rovinate; ma non è il momento per rischiarne un paio nuovo. Devo calzarli come ho sempre fatto, un elastico sotto e uno sopra i capelli raccolti. Anche se uno è più lento va bene così, non posso rischiare di perderli.
Sono arrivata fin qua e sono ad un passo dalla conquista della seconda medaglia d’oro. So che posso farcela, nei giorni precedenti ho capito di aver raggiunto un buono stato di forma; ma so anche che tutte siamo determinate ad avere la meglio, e che sulle brevi distanze giocano tanti fattori importanti oltre alla preparazione: la partenza, l’arrivo… Questione di centesimi preziosi.
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Nella notte precedente mi bastava il pensiero di sentirmi chiamare perché il battito cardiaco accelerasse come dopo una corsa in salita. Non ci sono mostri sacri in batteria, ex atlete di nazionale; ci sono altre donne come me, che conciliano il lavoro, la famiglia, gli impegni personali con la passione per il nuoto e la fatica degli allenamenti.
Ecco, mi chiamano. Passo il controllo cartellini e mi assegnano una corsia, quella centrale. Auguro un in bocca al lupo di cuore alle mie avversarie. Manca poco, pochissimo… Vado alla corsia, mi spoglio stando attenta a non muovere cuffia e occhialini, appoggio tutto sulla sedia.
Mi bagno con l’acqua presa da una cassetta di plastica che riporta il numero della corsia: polsi, tempie, collo, petto. La temperatura corporea si inizia ad adeguare. Presentano le atlete per nome e per società, faccio il solito cenno di saluto al pubblico. Asciugo il blocco con le mani. Attimi che sembrano eterni. Qualche saltello, qualche rotazione delle braccia, qualche allungo. Sistemo le spalline del costumone, mai che esca un seno (per quanto poco probabile).
Tocca a me: tre fischi e mi avvicino al blocco, ci piazzo già un piede sopra, ci sono. Un fischio lungo e ci salgo: piede destro avanti che aggancia il blocco, il sinistro dietro pronto a spingere. A posto. Mi carico. Qualche secondo che sembrano ore. Non sento niente altro che il beep. Guai a lanciarsi prima: tutto buttato; non un istante dopo: tutto buttato. Beep. Spingo e sono in acqua: mi sento avvolgere. Il costume completa la sua adesione al mio corpo: entra un po’ di acqua dal davanti. La spinta dal tuffo è terminata, le gambe stanno già battendo. Emergo e inizio a girare le braccia. All’inizio non respiro ma poi decido di non lavorare in ipossia. Via via via.
A fianco a me inizio a guadagnare terreno, centimetro dopo centimetro sono più avanti. Dai che ce la sto facendo dai. Realizzo di essere in testa, grande! Ecco il muro è là e… Iniziano a cedermi le braccia, le forze si stanno esaurendo: ma su, ancora qualche sforzo, il muro è vicino, giù avanti forza… Tocco. Non so se l’arrivo è stato buono, ho dovuto correggere la bracciata finale. Alzo gli occhi al tabellone: che ero prima lo avevo intuito, ma vedere scritto il mio nome a fianco del numero 1 ha il potere di entusiasmarmi di nuovo.
Poi lo sguardo corre veloce a destra, leggo il tempo, 28″91. Non riesco a trattenere un grido di gioia, mi sforzo di trattenere le lacrime: quello stesso tabellone spesso impietoso verso di me, che per tutto l’anno mi aveva relegato al fondo della batteria con tempi da allenamento, sembrava stare cercando un riscatto! Non scendevo sotto il 29″ in vasca lunga da almeno 5 anni.
Credevo di aver iniziato un declino, di non poter più disputare buoni tempi, di non essere più in grado di affrontare una competizione. E invece no: sono andata forte, ce l’ho messa tutta e ce l’ho fatta, bastava crederci fino in fondo. Non sento più la stanchezza, mi sento onnipotente. È euforia, è una gioia intensa mai provata prima. È un’iniezione di fiducia e di autostima. È felicità. È uno stato di grazia che non so quanto durerà ma che voglio poter rileggere e ricreare almeno nella memoria anche quando inizierà a scemare.
Non mi capita spesso di fare centro, anzi piuttosto raramente. Se sia stata la giornata giusta, la determinazione o semplice fortuna non lo so; so che rileggere queste parole mi dà la forza per continuare a provarci.
di Elena Rigon
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Profilo Autore
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Le ho provate tutte (le discipline del nuoto dico) tranne il sincro: sono stata agonista, pallanuotista, ho praticato il salvamento quando in pochi sapevano cosa era il 200 a ostacoli in vasca. Irriducibile continuo da master, quelli che un tempo ritenevo dei simpatici vecchietti. Prediligo lo stile libero e gareggio su distanze corte; evito le acque libere perché temo di sbagliare rotta. Pescatrice di impressioni, scrivo per descrivere: la vita in corsia e fuori, con parole mie. Vivo tra le nebbie padane, ho due figlie. Per condividere i miei pensieri ho creato un piccolo blog "pensieri in patchwork" .
CONTATTI: anfibiografo@nuotounostiledivita.it
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