Quando si vincono così tante medaglie, il loro scintillio è quasi accecante; producono un bagliore che, spesso, distrae dalla persona che c’è dietro l’atleta, che possiede una personalità, degli interessi e una sensibilità che, paradossalmente, è messa in ombra dal riflesso dei metalli pregiati.
Si tende a pensare che il riconoscimento sportivo sia una naturale conseguenza del duro lavoro, una dovuta ricompensa dopo giorni, mesi, addirittura anni spesi ad allenarsi al fine di coronare un unico, grande obiettivo. Che sia naturale guardare gli atleti sorridere e commuoversi cantando l’Inno della propria nazione sul podio – e che quando torneranno a casa ed esporranno la medaglia in una teca, le lacrime che solcheranno i loro visi saranno solo di gioia.
Anche chi ha avuto i mezzi, le forze e la propensione per trasformare la propria passione in un lavoro, come un atleta professionista, può sentirsi perso – specialmente dopo l’evento clou che attendeva da anni.
“Non sai cosa fare, né dove andare.”
Queste parole rappresentano una testimonianza e sono state pronunciate da chi, del nuoto, ne ha afferrato il corso degli eventi e l’ha plasmato a suo piacimento, raggiungendo una condizione per la quale verrà ricordato, ancora per molto, come il più forte di tutti i tempi. Non servono particolari presentazioni per Michael Phelps: l’olimpionico più vincente in assoluto, protagonista di sfide in vasca che verranno tramandate come favole, autore di primati che nessun altro nuotatore si era mai sognato di eguagliare.
È difficile da credere che, dunque, quelle parole siano uscite proprio dalla sua bocca. Sicuramente, amare ciò che si svolge come professione aiuta ad affrontare il lavoro giornaliero, ma ciò non vuol dire che il mestiere dell’atleta ad alti livelli debba essere “romanticizzato” o dedurre che chi fa l’atleta non possa incorrere in momenti di debolezza e stanchezza mentale.
Il fisico non è solo l’unico componente a esser messo alla prova quotidianamente, quando si fa sport. L’aspetto psicologico è importante, sia in allenamento che per la prestazione in gara, e non deve essere trascurato né durante percorso che conduce l’atleta al raggiungimento del suo obiettivo, né dopo che ciò accade.
In un mondo in cui alla salute mentale non è ancora stato riconosciuto il giusto peso e il notevole impatto che esercita sulle nostre vite, Michael Phelps si racconta in un’intervista con un media francese, Brut, in cui ripercorre gli acuti della sua carriera e richiama alla memoria anche i momenti bui, accaduti dopo le Olimpiadi di Londra, sottolineando l’importanza della salute mentale nel mondo dello sport.
La depressione post olimpica
“La depressione post-olimpica è una cosa vera, reale. Ne soffre il 70-75% delle persone. Questo perché lavori quattro anni per quel momento e in trenta secondi è tutto svanito; e poi, bisogna aspettare di nuovo per altri quattro anni.”
Quello di Phelps è un caso eclatante, ma di certo non l’unico. Un fenomeno simile si manifestò con Allison Schmitt – compagna di squadra dello Squalo di Baltimora – e Missy Franklin, entrambe campionesse olimpiche a Londra 2012. La prima ha affrontato un periodo di stop prima di riacquistare la serenità, l’altra ha trovato la pace fuori dall’acqua clorata.
La depressione post-olimpica, in accordo con le percentuali citate da Phelps stesso, esonda dalla squadra nazionale a stelle e strisce e, di certo, non colpisce solo il nuoto.
Ciò non vuol dire rinnegare un’illustrissima carriera – divertente, “fun”, come la definisce lo stesso Phelps:
“Facendo il bilancio di queste 5 Olimpiadi e dei miei 20 anni di carriera, sono riuscito a raggiungere tutti i miei obiettivi.”
Per ogni goal c’è un prezzo da pagare, e anche piuttosto alto. Già alle sei e trenta del mattino, Phelps raggiungeva il bordo vasca. Poi faceva stretching, poi si allenava in acqua per due ore; ripetuto questo iter per n volte si raggiunge un totale complessivo di circa 25 ore a settimana passate in piscina.
Il suo rigido programma non comprendeva alcun giorno di riposo:
“Per 5 o 6 anni, mi sono allenato 356 giorni all’anno. Ma era perché volevo ottenere risultati che nessuno aveva mai ottenuto nella storia; quindi, ho dovuto fare qualcosa di diverso.”
E anche in giornate in cui si aprono gli occhi e l’unica cosa che si vuol fare è premere il tasto Ritarda della sveglia, Phelps ci provava: a dare il 5, il 10 o il 20% – piuttosto che lo 0%. Una routine serrata che non prevede sgarri, una forza di volontà fuori dal comune, e voler cercare di andare sempre avanti hanno reso Phelps il più grande di tutti i tempi. A lungo andare, però, la mente si logora e a un certo punto, non si possono più ignorare i segni di cedimento.
Fingere che vada tutto bene
Ciò che si prova a nascondere non va mai via del tutto. Phelps, dopo aver percepito i sentori della propria sofferenza psicologica, ha deciso di insabbiarli e di non farne parola con nessuno, né con gli allenatori né con i compagni di squadra, e dunque neanche con il mondo intero.
La motivazione è tanto precisa quanto agghiacciante:
“Durante la mia carriera non ho lasciato che trasparisse niente, perché lo consideravo come ammettere un segno di debolezza. Cercavo di “mettere da parte”, di ingoiare il rospo e far credere che andasse tutto bene.”
Ma fingere che non c’è niente che non vada non può durare per sempre.
Il 2014
Nell’intervista si parla di una particolare annata, quella del 2014. Phelps aveva già detto addio alle competizioni, dopo quelle Olimpiadi di Londra in cui le sue poche “controprestazioni” fecero più eco dei suoi tantissimi successi.
“Ero stato arrestato per guida in stato di incoscienza ed ero molto depresso. Non volevo più vivere. Poi sono riuscito a dirmi che c’erano altre strade da esplorare, che avrei cercato di vedere che tipo di aiuto ottenere.
Mi sono rivolto a un centro di cura dove ho potuto immergermi nel mio io più profondo, per capire perché sono come sono, perché agisco come agisco, e perché porto quel peso, quello stress e tutto ciò che mi tormenta.
I miei ultimi Giochi olimpici – credo sia stato allora che ho iniziato ad aprirmi e mostrare chi ero veramente. Ho parlato delle mie difficoltà, del fatto che abbiamo il diritto di stare male e di avere dei giorni liberi.”
Quest’analisi interiore gli ha consentito di imparare nuove cose su di sé, di capire chi fosse veramente e che c’è molto altro dietro a una medaglia, seppur del metallo più prezioso, seppur della competizione più illustre:
“Mi sento umano. Per molto tempo non mi vedevo come un essere umano, mi vedevo come un atleta, Un nuotatore… non come una persona. Ora mi piace il riflesso che vedo nello specchio. Sono un padre, un marito, un amico, Un lavoratore… sono io.”
Troppo spesso Michael Phelps ha dovuto fare i conti con degli appellativi altisonanti – non è umano, viene da un altro pianeta – e, a lungo andare, possono andare stretti anche a chi ha preso il libro della storia del nuoto e ha impresso il suo nome con il più indelebile degli inchiostri.
E infine, sugli atleti:
“Penso che gli atleti abbiano bisogno di più sostegno e aiuto. Da giovane, quando mi infortunavo fisicamente ero subito supportato: c’era un medico che mi aiutava subito. Ma se avessi avuto un problema psicologico, una sofferenza mentale, non ci sarebbe stato nessuno. Questo deve cambiare e finché non cambia, il mondo dello sport non migliorerà.”
Michael Phelps ha trovato il modo di riprendersi da un momento di buio e di uscirne cambiato; il resto, lo sappiamo: grazie alla forza ritrovata, Phelps si è qualificato per la sua quinta Olimpiade e, tra le altre cose, ha vinto anche il suo quarto oro olimpico di fila nei 200 misti.
Quello di Phelps è un caso incoraggiante, che infonde speranza a chi si trova nella stessa condizione e che dimostra che non tutto è perduto. Tuttavia viene da domandarsi, perché esistono ancora atleti che soffrono di depressione post-olimpica – o malessere in generale, laddove i motivi sono principalmente derivanti dallo sport? In quanti non chiedono aiuto per la vergogna – lo stesso Phelps non voleva “ammettere la propria debolezza” – e come sarebbe andata se, invece, l’aiuto Phelps non lo avesse chiesto affatto?
Ci si potrebbe addentrare, in maniera più approfondita, nei meandri della comunità sportiva per cercare di trovare una risposta a questi interrogativi; certo è che la narrazione degli atleti come non-umani, come robot che devono essere sempre performanti (e messi alla gogna quando prendono uno scivolone) è fortemente de-personalizzante.
La salute mentale degli atleti viene ancora tanto trascurata. Magari, con il tempo, si capirà realmente che una seduta dallo psicologo è importante tanto quanto un esercizio di tecnica. E che gli atleti devono essere assistiti in qualsiasi momento del loro percorso. Solo allora ci potremmo augurare che nessun atleta sarà più vittima delle sue stesse agognate medaglie, di quel lato oscuro della luna chiamato successo.
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Profilo Autore
- Studentessa di Chimica, nuotatrice agonista, aspirante scrittrice: non necessariamente in quest’ordine. Forse l’unica nuotatrice al mondo che trova divertenti i 200 farfalla, ma le sue gare preferite in assoluto sono i 100 farfalla e i 100 stile. Membro della redazione, il suo compito? Raccontare storie di cloro sul mondo natatorio e le sue dinamiche per affascinare i meno appassionati, per strappare un sorriso dopo la stanchezza di fine allenamento o, semplicemente, per far battere il cuore agli atleti della community e farli innamorare del nuoto come la prima volta.
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